martedì 14 luglio 2015

Res ipsa loquitur










Una storia di architettura.



Res ipsa loquitur
Le cose e i fatti parlano da sé.


Era un giorno d’autunno il giorno in cui sono rinato. A dire la verità, se mi esprimo così, usando il termine “rinato”, è solo per potermi far capire da voi umani. Io non sono mai morto e non sono mai nato, la morte per me non esiste, non è parte di me, la mia reale natura è la trasformazione. Per la maggior parte di voi questo è un termine che interessa poco, o per lo meno non vi interessa dal punto di vista materiale, visto che siete troppo presi ad occuparvi del vostro destino e delle vostre faccende in modo affannato e impacciato.
È inutile dilungarsi, voglio che moriate di gelosia nei miei confronti, sono impaziente. Sono impaziente come una ragazza con il suo vestito nuovo appena uscita dalla bottega, che da un lato vorrebbe reprimere e contenere tutta la felicità scrutando gli sguardi dei passanti, per capire se viene notata, ma che dopo pochi istanti si scioglie e mostra il suo nuovo acquisto a tutto il mondo con fare entusiasta, forse un po’ troppo entusiasta per essere di buon gusto. 
È vero sono impaziente e visto che questo è un lato del mio carattere che non mi è mai piaciuto cercherò di resistere ancora un po’ dallo svelarvi chi sono, in modo da divertirmi nel guardare le vostre facce sulle quali si scorge quel lieve ghigno che si confonde tra la presa in giro e la curiosità che avete nello scoprire chi vi possa rendere così gelosi.
Come quelli che mi hanno già identificato io sono assolutamente cosciente di ogni singolo e infinitesimo secondo della mia esistenza e per me il tempo ha un valore che probabilmente vi verrà un po’ difficile comprendere. Ho la capacità di dilatarlo o contrarlo a mio piacimento, posso ignorarlo oppure farlo trascorrere molto lentamente, un po’ come fanno i bambini.
È una bella sensazione controllare il tempo e i suoi effetti ed è facile immaginare quante persone si vorrebbero mettere al mio posto: ricche o povere, di qualsiasi specie o religione. Alzi la mano chi tra voi non getterebbe al vento tutti i suoi averi per essere come me. Chi sconfigge il tempo è universale, anzi forse è l’universo. Quanti re e ricchi signori hanno fatto le cose più indicibili per garantirsi, non dico l’eternità e nemmeno l’immortalità, ma soltanto una piccola briciola di tutto questo. Quanti sono gli artisti che hanno lavorato tanti anni, loro dicono per la fama, ma in realtà con il solo scopo di non essere dimenticati. La sensazione che dà l’eternità è indescrivibile e nonostante tutti gli sforzi, da voi viventi irraggiungibile sotto tutti i punti di vista.
Ora che sapete finalmente chi sono devo confessare, come avrete già capito, che sono sempre stato un po’ presuntuoso e arrogante, ma la storia che sto per raccontarvi mi ha cambiato l’esistenza e spero che un po’ possa cambiare anche la vostra.
Appena risvegliato mi resi subito conto della mia nuova forma: ero un minerale ricco di ferro chiamato ematite. Questo fatto evoca in me dei ricordi profondi e immobili da parecchio tempo. Il ferro di cui sono composto mi rammenta il momento in cui arrivai su questo pianeta che oramai costituisce la mia patria definitiva. Facevo, infatti, parte di un meteorite che cadde da qualche parte milioni di anni fa, quando la terra era ancora una giovane e scoppiettante palla di fuoco incandescente. 
L’unico aspetto che invidio a voi umani è che avete la capacità di dimenticare il momento in cui venite alla luce, io invece ricordo che mi ritrovai senza tanti complimenti in un carrello spinto da dei minatori stanchi su di un binario scassato all’interno di una schifosa miniera maleodorante e tremendamente umida. Desideravo disperatamente ritornare al mio torpore, ai miei pensieri senza tempo e alla comodità di un luogo dove (quasi) nessuno poteva interrompermi. Come si stava bene al calore del grembo materno, coccolato e protetto da qualsiasi destino che non fosse l’immobilità e la beata solitudine. 
Ma questi non capiscono, sono troppo cresciuti e stanchi per affinare i propri sensi e ascoltare le mie grida. Rimettetemi dove mi avete trovato coprendomi con più palate di terra possibile. Avete capito? E’ inutile perchè questi, stanchi come sono, non mi sentirebbero neanche se gli cadessi dritto sulle punte dei piedi.
Io non lo sapevo come sdebitarmi ma loro invece lo sapevano perfettamente. Aprendo delle fenditure sistemate ai lati della fornace mi fecero scolare di mano in mano a riprese entro delle fossette, nelle quali mi rappresi nuovamente in masse irregolari. Ancora caldo e confuso per la rapidità con cui il mio sogno era finito, mi presero e senza tanti complimenti mi gettarono in un recipiente colmo d’acqua. Avete idea di che cosa questo voglia dire? Iniziai a restringermi violentemente disperdendo tutto il mio calore. Appena entrato in acqua ero talmente caldo che questa non fece nemmeno a tempo ad avvolgermi che subito la mia aurea arroventata la tenne a debita distanza provocando in questa ebollizioni di indicibile violenza. Era tutto molto confuso, io che stridevo e vibravo e tutto intorno a me una confusione e un caos generati dal vapore e dal ribollire inquieto del liquido che con il passare del tempo prendeva il sopravvento su di me. Oramai mi stavo rassegnando alla battaglia per il calore che io e la mia involontaria rivale ci eravamo trovati a combattere. 
Mi chiamarono ferraccia, che a dire il vero a me suonava tanto come dispregiativo, e siccome ero ancora pieno di impurità mi rimisero al calore consolante del fuoco di una fucina. Li mi ricoprirono di carboni, e ravvivando il fuoco con un soffio perenne, mi riscaldarono ad una temperatura che si avvicinava a quella di fusione. Mi mantennero sul soffio d’aria che alimentava il fuoco ancora per un pò, rigirandomi di tanto in tanto per distribuire il calore su tutta la mia superficie in modo uniforme. Pensai subito che dopo questo nuovo tuffo nel passato e nei ricordi mi sarebbe toccato di finire nuovamente a combattere con l’acqua sul fondo di una piscina. Gli umani mi riservarono invece un trattamento del tutto inaspettato. Mi posarono su di una pesante e vecchia incudine orami consumata a forza di essere battuta e ribattuta nel corso degli anni e presero a dare giù colpi con un pesante maglio mosso rapidamente dalla forza motrice dell’acqua. Vi assicuro che anche questo nuovo trattamento non mi era assolutamente gradito, soprattutto se pensate che ripeterono questo ciclo per un numero di volte che rifiutai di contare. Scalda e batti, scalda e batti, scalda e batti. Mi accorsi che a ogni colpo inferto io mi liberavo dalle impurità che mi circondavano diventando sempre più forte e puro, ma a che prezzo! Acqua e Fuoco: questi furono gli elementi che diedero vita a me proprio come fecero con voi. Fuoco simbolo dell’energia della vita, combustibile dell’essere e irrequietezza dell’animo. Simbolo di purezza. Acqua come l’anima dell’essere vivente: è irrequieta e non ha posa, non ha principio, non ha fine. E’ fiume e mare, è dolce e salata, è nemica ed amica, è confine e infinito, è principio e fine. E’ energia fecondatrice, principio di tutte le cose ma anche purificatrice e implica sempre una trasformazione, una rinascita. Come aspersioni e immersioni permettono all'uomo di liberarsi dai peccati commessi e di iniziare così una nuova vita o una nuova e più cosciente fase dell'esistenza, l’acqua mi permise di scrollarmi di dosso impurità di ogni genere permettendomi cosi di cominciare un nuovo tipo di trasformazione da materia mai sperimentata.
Mi presero e mi buttarono noncuranti della mia emotività e della mia indole solitaria in mezzo ad altre barre di ferro del tutto simili a me, e come me non troppo felici di essere in quella situazione. Dalla mia sagoma capii subito che il mio sogno di diventare un elegante componente decorativo in ferro battuto era svanito. Ero destinato a svolgere un qualche lavoro pesante che richiedeva delle capacità che solo io all’epoca possedevo.
Come mi ero sbagliato, giudicandoli frettolosamente. Pensare che gli umani mi avessero compreso e che finalmente avessero imparato a comunicare con me è stato ingenuo. Questi, mi hanno sbattuto ai lavori forzati senza fare troppi complimenti.
Va bene, non ero bello ma ero forte, e questo fatto un po’ mi consolava, avrei svolto sicuramente un qualche lavoro importante, anzi, fondamentale in un qualche edificio all’avanguardia. E invece anche questa volta la risposta era negativa; un no grande come una casa, e più precisamente una casa nella città di Genova. Questa, infatti, fu ed è tuttora la mia residenza e luogo di lavoro. So che ora starete pensando che sono incontentabile e inappagabile e che al mondo esistono ferri ancora più sfortunati di me, ma vi giuro che avevo oramai fatto di tutto per potermi far piacere questa mia nuova condizione, che purtroppo non volgeva a mio favore. Il mio futuro, per come lo vedevo allora, si stava trasformando in un incubo, un incubo fatto di un lavoro al buio, lontano dagli sguardi ammirati della gente, lontano da ogni tipo di privilegio che un metallo della mia importanza avrebbe meritato.
Dopo essere stato scaricato dal carro nei pressi di una casa un po’ malandata e dai muri scoloriti, subito si misero al lavoro per potermi mettere nella posizione in cui da quel momento avrei dovuto svolgere il pesante compito a cui mi avevano destinato. Mi portarono dunque in una piccola stanza stipata di mobili e oggetti di varia natura coperti da lenzuoli bianchi tutti impolverati. Qui mi infilarono in un buco, precedentemente eseguito nella muratura, la cui forma assomigliava a quella di un cono il cui apice era rivolto verso la parte interna della parete, facendomi così raggiungere l’esterno dal lato in cui mi avevano praticato l’occhiello. In questo ci infilarono una robusta asta di ferro della lunghezza approssimativa di un metro che aveva centralmente la forma di un parallelogramma e che proseguendo verso le due estremità si rastremava a formare una figura geometrica composta da due coni appoggiati tra loro tramite le rispettive basi. La parte mediana e più spessa di tale arnese era fornita di un incavo in cui venni alloggiato dapprima solo in modo da verificare se tutte le misure fossero state fatte correttamente e poi, una volta ristabilita la continuità del muro, in modo definitivo e permanente. La muratura venne così ripristinata chiudendo il buco conico per mezzo di blocchetti di pietra messi in opera in modo diligente e preciso dalle veloci ed esperte mani di un operaio. Una volta completata questa operazione subito mi fecero fare la conoscenza del mio gemello, al quale mi unirono tramite una strana doppia vite a forma di farfalla. Questa, una volta avvitata alle nostre due estremità filettate, aveva la capacità di regolare perfettamente la nostra reciproca distanza. Quando la vite veniva girata lentamente in senso orario la nostra separazione si riduceva e ,considerato il fatto che le nostre altre due estremità non impegnate in questa silenziosa tortura erano fisse in robusti muri, potete immaginare quale potesse essere l’orribile conseguenza. Più la vite veniva girata e più noi due, poveri pezzi di ferro, stridevamo e ci sforzavamo di resistere a questo allungamento. Tale sforzo da parte mia non era voluto, anzi, se la mia natura me lo avesse consentito avrei certamente evitato di oppormi lasciandomi andare in un rilassante allungamento. Purtroppo la mia essenza mi costringeva a far tendere tutte le mie fibre in un disperato e involontario tentativo di rimanere della stessa lunghezza.
Probabilmente ora penserete che una semplice catena non possa raccontare una storia interessante, ma è solo perché voi non avete ancore capito quanta poesia e bellezza ci sia in un gesto semplice come quello che svolgo io nel compiere il mio dovere. Devo dire che anche per me non è stato facile comprenderlo, anzi all’inizio ero talmente stufo di starmene li in quella condizione che avrei persino preferito essere uno di voi, rinunciando a tutti i privilegi che madre natura mi aveva donato in cambio di un anima e un paio di gambe. Questo pensiero mi fece sbocciare un’idea. Chiaramente né le gambe né l’anima erano fattibili, ma forse avrei potuto far finta di comportarmi come uno di voi inscenando una specie di gioco con me stesso. Avrei da quel momento osservato il vostro comportamento cercando poi di riprodurlo immedesimandomi il più possibile nel personaggio e cercando di coltivare le passioni e i dilemmi che vi affliggono.
All’inizio il gioco si rivelò piuttosto difficile in quanto, a essere sincero, non avevo mai prestato attenzione a nulla che vi riguardasse, fatta eccezione a quando questo nulla riguardava me. 
Iniziai così ad esaminare la persona che occupava la casa alla quale ero “legato” e mi resi conto che nonostante fossero trascorsi parecchi anni da quando arrivai qui non avevo mai fatto caso a questo ometto dallo strano abbigliamento e alla sua fantasiosa abitazione; per me costui era un pò stato finora come un fantasma che girovagava nel suo regno a lui solo visibile. D’ora in poi avrei cercato di scrutare e penetrare una realtà per me del tutto nuova.
Ciò vuol dire che anche io potrei imparare qualche cosa, e il mio gioco sta diventando proprio interessante. Era probabilmente l’assenza della morte che mi privava della voglia di conoscenza, contro questa apatia ora avrei combattuto e fingendomi spaventato di fronte al mio futuro avrei cercato di leggere tutto quello che il nostro signor Efendi leggeva durante le sue giornate di lavoro, accompagnandolo nelle attività che a lui davano tanta soddisfazione e che mi rendevano sempre più attratto verso un mondo e un tipo di esistenza finora sconosciuta. 
Mentre Gustavo sfogliava i suoi libri io ne approfittavo e a sua insaputa leggevo, facendo in modo che le migliaia di informazioni contenute nei volumi si fissassero indelebilmente a me, quasi come se di me dovessero venire a far parte per sempre. Lessi tantissimo interessandomi in questo primo periodo soprattutto agli aspetti che mi riguardavano, o per meglio dire a quelli che riguardavano le catene murarie, delle quali io ero la materia di cui quelle di questa casa erano composte.
Iniziai ad esaminare gli aspetti più semplici della questione, cercando di filtrare il tutto in modo critico e costruttivo. Scoprii così che i sistemi di concatenamento possono riguardare le murature ordinarie oppure le strutture voltate. Nel primo caso questi venivano e vengono usati per curare oppure prevenire la rovina dei muri in occasione ad esempio di un cattivo terreno in fondazione oppure di un edificio isolato la cui stabilità era minacciata da fattori di diversa origine; questo mi pareva un caso abbastanza intuitivo di utilizzo del ferro nelle murature, il cui studio probabilmente non mi avrebbe portato molto lontano nella ricerca del mio vero significato. Mi parve così più utile concentrarmi sui sistemi ad arco il cui studio è sempre stato fonte di grande interesse da parte dei tecnici dell’architettura di tutti i tempi. Così facendo avrei potuto capire quando l’utilizzo di tiranti in ferro sia diventato un modo consapevole di utilizzare questo metallo e non frutto dell’esperienza costruttiva accumulatasi negli anni e nella storia. Quello che voglio dire è che a mio avviso questa mia ricerca se si fosse limitata solo al semplice elenco e confronto di tesi sulla storia delle catene si sarebbe rivelata poco interessante e altrettanto poco produttiva; basandomi invece sul concetto di consapevolezza le strade che mi si aprirono dinanzi furono pressoché infinite.
Pellegrino Tibaldi, detto il Pellegrini, fu un architetto e un trattatista della fine del 1500 che come altri fu commentatore dell’esposizione albertiana. Nei suoi scritti alla voce archi e cupole rilevò che nulla di nuovo c’era rispetto all’Alberti, il che secondo me sta a significare che egli,150 anni dopo il suo illustre predecessore, possedeva le sue stesse conoscenze. Fece però una precisazione a favore delle catene affermando il loro buon ufficio svolto in tutti i tipi di arco, compreso quello a tutto sesto, sostenendo intuitivamente così la presenza di una sua spinta esercitata sugli appoggi, non rilevata a suo tempo dall’Alberti. Egli avvertì probabilmente che qualche cosa nel mondo architettonico (e non) stava cambiando e che quasi certamente le vecchie regole tramandate avrebbero dovuto subire un radicale ammodernamento basato non più su definizioni approssimative ma sul metodo sperimentale, sul meccanicismo e sul controriformismo che stava oramai dilagando in tutta Europa. Galileo Galilei fu di questa cultura il più noto esponente scientifico e, a rischio della sua stessa salute, il primo assertore dell’ interpretazione della realtà secondo il movimento e la materia, il che lo portò nel 1638 a elaborare un modello di comportamento fisico per spiegare il fenomeno della rottura in una mensola incastrata. In questo modo la celebre triade vitruviana , che rappresentò lo schema per tutto il rinascimento , venne messa in crisi; infatti tradizionalmente il ruolo della matematica e della fisica era perfettamente delineato e non vi era nessun accenno alla loro implicazione nei problemi connessi alla firmitas. Lo scienziato pisano, a dispetto di tutti quelli che lo considerarono un eretico, diede il via ad un cambiamento epocale.
Probabilmente l’uso di tiranti in ferro fu ed è così diffuso poiché il loro aiuto è di facile intuizione e, se posizionati correttamente, hanno il potere di consolidare le murature nel senso di renderne solidali le sue parti. Queste si comportano infatti come un solido solo se le condizioni esterne glielo consentono, altrimenti assumono il comportamento di un fluido. I legni che compongono una botte, ad esempio, presi uno per uno sono solidi e reagiscono alle sollecitazioni esterne come tali. Per trasformarsi in botte però necessitano di cerchi di ferro senza la presenza dei quali la struttura, presa nel suo complesso, si comporterebbe come un liquido. Penso che una persona digiuna di qualsiasi elemento di statica, possa intuire la funzione della cerchiatura in ferro della botte come l’applicazione di catene ad una muratura anche se non ne può descrivere il reale comportamento, rendendo così questo metodo di consolidamento accessibile a tutti e poco dispendioso.
Il più eclatante e, per conto mio, interessante utilizzo di tali tecniche risale al 1743, data in cui Giovanni Poleni viene incaricato di porre rimedio ai danni subiti dalla cupola vaticana in quanto personaggio ritenuto capace di usare con discrezione la matematica per sviluppare difficili casi di fisica. Infatti, per prima cosa, egli cercò di individuare i perché delle lesioni confermando il mutato atteggiamento rivolto ad una analisi scientifica di cause ed effetti. Siccome questi ultimi erano evidenti e sotto gli occhi di tutti, ne vennero analizzati i motivi enumerandoli poi nei seguenti nove punti:” 1) natura dei materiali; 2) caldo e secco; 3) freddo e umido; 4) il peso che agisce nelle pietre vive; 5) il peso che preme i mattoni coi cementi; 6) il peso sovrapposto ai muri; 7) le differenze nascenti nei siti inferiori d’una fabbrica; 8) la direzione delle nascenti fratture; 9) gli assestamenti. Successivamente egli elaborò una catenaria dalla quale ottenne la curva di equilibrio che, passata per dei punti prestabiliti (che in realtà possono essere infiniti) corrispondenti ai centri delle sezioni di imposta e di quelle corrispondenti al vano della lanterna, rivelò che la cupola poteva stare in piedi da sola. Tale risultato difficilmente lo impressionò anche perché la cupola di San Pietro era proprio li davanti ai suoi occhi, bella e misteriosa come non mai. Nonostante tutte queste possibili cause, i diverbi che precedettero e accompagnarono questa ricerca e di fronte ad un mistero come il comportamento della muratura di un gigantesco edificio come quello preso in esame, secondo il Poleni la cosa migliore da fare fu l’applicazione preventiva di grossi cerchioni di ferro, anticipatamente testati con macchine da lui stesso inventate, atti a contrastare imprevedibili ma assai probabili movimenti e dissesti.
Per calmarmi e cercare di ritrovare la pace con me stesso provai, nelle settimane successive, a concentrarmi su di una prospettiva di carattere scientifico riguardante gli aspetti a me correlati. Forse scavando nei testi di Gustavo avrei trovato quella sicurezza che dà l’esattezza della dottrina.
Il Rondelet, a differenza di quest’ultima affermazione, asserisce sul suo “Traité theorique et pratique de l’art de bâtir” invece più semplicemente che la resistenza del ferro è pari a sette quarantaquattresimi la spinta interna, ottenendo però un valore trascurabilmente dissimile dal primo. 
Come avrete già facilmente intuito il calcolo di una catena come me non è affatto complesso, la parte più difficile è l’identificazione dello sforzo generato dalle murature. Come ho già specificato largamente queste sono di complicata e sfuggevole natura a tal punto che, in certi casi, la stima della spinta sui tiranti risulta ostica se non impossibile.
Continuando ad indagare circa le ricerche compiute in questa direzione capii perfino il motivo per cui fui messo in opera in autunno e non in un'altra stagione, provando il fatto che, nonostante la mia apparente semplicità, nulla da Gustavo era stato lasciato al caso. Un altro metodo, per evitare il più possibile le noie dovute alle variazioni di temperatura, era infatti quello di mettere in trazione le catene durante una stagione dell’anno in cui le temperature non fossero ne quelle piacevoli e rilassanti dei mesi estivi ne le rigide e paralizzanti di quelli invernali, limitando e mediando così gli effetti attivi e passivi sulle fragili murature. Così se nel nostro clima si porranno in opera le spranghe quando si trovano alla temperatura di circa 15 gradi, il massimo allungamento ed il massimo accorciamento che esse potranno subire non oltrepasserà il limite di pressappoco 31 millimetri ogni 10 metri di lunghezza; variazione tenuissima, che non può considerarsi valida a produrre sensibili alterazioni nello stato delle masse allacciate.
Il vecchio gioco intrapreso oramai parecchi anni or sono si è trasformato in qualche cosa di molto serio che mi ha coinvolto in tutte le fibre. Ho perso il conto dei libri letti e degli anni trascorsi quassù a fare il mio dovere con la mente occupata. Mi pare così lontano il tempo in cui mi trovavo nelle profondità della terra, occupato in ragionamenti che ora mi sembrano solo ombre dalla forma indistinguibile. Forse erano solo sogni o forse neppure questo. Non è il tempo, a cui sono immune, a farmi dimenticare il mio passato ma il mio nuovo stato, quello attuale. Vedete come ci assomigliamo? Anche voi umani, durante il passaggio dalla vita nel ventre materno a quella nel ventre terreno, subite un processo del tutto affine al mio: i vostri ricordi prenatali si trasformano in istinti e processi mentali incontrollabili ed irriconoscibili nei loro contorni.
Nonostante tutto bisogna però considerare il fatto che nell’intervallo trascorso molte furono le cose che mutarono. Erano infatti consueti in quel periodo dei rapidi cambiamenti che riguardavano tutti gli aspetti della vita. I cambiamenti sono alla base della storia, senza i quali questa cesserebbe di avere significato; tali modificazioni furono in passato molto più lente e graduali se paragonate alla rapidità con cui la ricerca scientifica le fece susseguire in periodi più recenti. Come fu naturale anche il mondo dell’architettura e le rispettive branche furono investite dalla modernità con nuove tesi e teorie dalle quali il tentativo di divincolarsi risultò un inutile spreco di forze.
L’architettura si stava così scrollando di dosso i preconcetti che per tanto tempo l’avevano trattenuta in una dimensione irreale legata al guinzaglio di una classicità che oramai molti non percepivano più come dovuta, e il calcestruzzo la stava aiutando porgendogli la sua rassicurante e invitante mano.
Il ferro passò dalla gloria e dallo splendore ad essere annegato in freddo cemento all’interno del quale non vi era più spazio per nulla che non fosse il puro e semplice lavoro. Il cemento è un materiale senza malizie e, grazie al calcolo matematico, assai prevedibile. Dove era finita la vecchia poesia dei muri liquidi, dei muri organismi viventi, dove era finita la mistica dell’architettura,e dove i simboli che questa crea? Tutto era disposto dalle leggi fisiche, matematiche, logiche e funzionali che regolano la scienza delle costruzioni , ogni ferro è sull’attenti e pronto a essere sollecitato da un esatto e prestabilito numero di chili che lo tendono o comprimono a seconda della sollecitazione che gli ingegneri hanno deciso di attribuirgli.
Mi pareva quasi che la cara e vecchia arte del costruire, che per definizione non si poteva scindere dalle tecniche e dalle procedure allestite con il fine della realizzazione, si stesse divaricando con estrema facilità fino alla rottura in due porzioni chiaramente distinte: la scienza, che si prefigge di controllare prima di edificare, e l’arte che raggiunge il suo oramai mutevole scopo solo alla fine dell’intero processo edilizio. Come qualche d’uno noterà presto, questo pluralismo disciplinare non riuscirà mai a realizzare una architettura, se non sottoposto a qualche d’uno, che come ai vecchi tempi, non riuscirà a coordinare il lavoro di tutti tenendo ben chiara in testa l’idea generatrice e la meta da raggiungere.
È questo il mondo di cui sono fiero di essere stato parte: un mondo di esperienza, di intuizione e di interpretazione. Per dirla come farebbe Arturo Danusso: “sarebbe follia il credere che il progresso degli studi portasse la scienza delle costruzioni a sostituire l’intuito del costruttore: tutte le volte che questo peccato fu commesso, apparve come frutto negli animi l’orgoglio, e nelle opere la degenerazione del senso costruttivo”.
Una cosa era certa: sta volta la gelosia per questi miei sfortunati fratelli annegati nel cemento era un sentimento molto lontano da me. Annegati e soffocati nel corpo e nell’anima, nella volontà e nella libertà: impossibilitati a ribellarsi ad un destino già scritto, o per meglio dire già calcolato. Mi sentivo libero, mi sentivo finalmente parte di un qualche cosa di eccezionale e grande.
Mi vengono in mente ora tutte le parole dette o soltanto pensate, e quanto queste fossero state il naturale frutto dell’ignoranza che possedevo ma non percepivo. Penso anche che, dopo tutto, quei poeti, quei re, quegli artisti che quasi disprezzavo in quanto ricercavano l’immortalità in modo artificiale, poiché impossibilitati di farlo in altro modo, sono degni del rispetto che suscitarono nelle rispettive società.
Era un giorno d’autunno il giorno in cui sono rinato. È successo di nuovo, ora mi sono trasformato nuovamente, ma questa volta la trasfigurazione non riguarda più il mio aspetto esteriore e la chimica degli elementi che mi compongono ma bensì qualche cosa di impalpabile come sabbia finissima che scorre inarrestabile tra le dita bianche e rosse di un pugno serrato. Il mio punto di vista ora è completamente cambiato, e dove prima c’erano delle semplici chiese, abitazioni, musei, città, ora ci sono meravigliosi testimoni di un passato irrecuperabile, e nella mente di chi vuole, un metodo o perlomeno un modo di pensare e intendere la costruzione da ereditare.
Essendo parte di qualche cosa di vivente come questa muratura, di cui solo adesso mi sento elemento integrante e partecipe, il mio destino è la morte che mi prenderà quando in futuro questa cesserà di esistere e verrà trasformata in un cumulo di macerie polverose per far spazio a qualche cosa di assai più moderno. Mi ritroverò così magari piegato e senza una funzione ma felice di essere stato qualche cosa molto vicino alla poesia 
La mia storia ora è finita, e anche se so che non credereste mai che la materia possa raccontare una storia, la prossima volta che vi capiterà di passare accanto ad una architettura del passato, fermatevi un istante a osservarla, e pensate all’esperienza sedimentata e a tutti quei fattori oggi dimenticati che ne permisero l’erezione. Siatene fieri, poiché quelle opere, a differenza di quelle moderne che sono il prodotto della mente dell’architetto, erano il frutto maturo di una società che si evolveva con un occhio al passato e uno al futuro. Quelli erano capolavori composti da ogni singola anima della collettività ed erano formatori di identità oramai evaporate. Dovete esser portatori dell’orgoglio di appartenere a quell’umanità che crede di potere e saper usare la materia a patto di non usurparla e snaturarla, ma di poterla plasmare nella coscienza di un atto etico ed estetico.
La sensazione che provo è di estremo piacere mischiato a consapevole tristezza: io che con la morte sono stato premiato.
Sono stato le ali di una farfalla, un giglio di mare su un corallo nell’oceano Pacifico, una pietra gettata in uno stagno: in passato sono stato tante cose, tutte diverse l’una dall’altra ed in futuro ne sarò altrettante e le storie che vi potrei raccontare sono infinite. Posseggo una sapienza e una saggezza nemmeno paragonabile alla vostra ed, a differenza di voi, io ho sempre posseduto la conoscenza e la certezza del mio essere. Io sono la Materia, o perlomeno questo è il nome che voi mi avete dato, e vi voglio raccontare una storia, la mia storia. Su, dai, non fate quella faccia. Se è soltanto perché non vi aspettavate che la materia potesse raccontare una storia è comprensibile. Tra di voi, forse, c’è qualcheduno che nemmeno si immaginava che io potessi comunicare, e tanto meno parlare, ma sono sicuro che guardando in fondo al vostro cuore non vi sarà difficile riconoscermi. Noi ci eravamo già parlati un po’ di anni fa, ricordate? Io mi ero presentata sotto forma di un sasso parlante nei vostri giochi di bambino, oppure di orsacchiotto che vi ha tenuto compagnia nelle notti in cui avevate paura del lupo mannaro: lui si che non esisteva, io invece ero proprio lì, e voi potevate sentire le mie parole e persino percepire in me un’anima. Quando poi siete cresciuti avete smesso di parlarmi e avete chiamato e classificato pazzi quelli che invece hanno imperterriti continuato a farlo, noncuranti delle vostre stupide leggi che ognuno deve rispettare per essere accettato dagli altri componenti di quella che voi avete chiamato società. Società di cosa? Forse di gente che non comunica con gli oggetti solo perché da questi non si possono ottenere risposte immediate? Aprite la vostra mente e da ora in poi imparate ad ascoltarmi: annusatemi, toccatemi, io vi parlerò, e se voi imparerete a farlo, forse, riuscirete a comprendere che in fondo voi siete fatti di me.
Tutto iniziò un giorno in cui me ne stavo appisolato dolcemente nelle profondità della terra. D’un tratto, una forte vibrazione ritmica mi svegliò dal mio torpore con modi prima dolci e cupi, come se fossi stato avvolto in un meraviglioso e comodo cuscino, e poi gradualmente sempre più forti e fastidiosi. Ah!, ma che maniere! E’ forse questo il modo di destare qualcuno ancora intorpidito da un lungo sonno nel buio più completo delle profondità terrestri? Cercate di essere gentili! Cos’è questo prendi e sbatti! 
Mi trasportarono poi nei pressi di una fornace e li mi fecero in tanti pezzettini non più grandi di una noce e mi riscaldarono in un forno di torrefazione per prepararmi a qualche cosa che in quel momento non avrei nemmeno immaginato. Non passò molto tempo che mi ritrovai in forma liquida all’interno di un altoforno caldissimo in compagnia di carbone e di calce viva; finalmente mi sentii di nuovo a casa. Era bello e confortevole stare li dentro. Ero libero, sguazzavo felicemente a destra e a sinistra in alto e in basso fino a quando non sbattevo contro le pareti dello spesso recipiente. Liberatomi dalle scorie che mi ricoprivano ero veramente ritornato in quello stato in cui sono rimasto per tanti anni quando mi schiantai con fragore su questo pianeta. Che bello, mi ero sbagliato sul conto di quei minatori che con le loro mani dure e consumate mi avevano estratto dal mio giaciglio. Mi avevano sentito! Avendomi compreso profondamente mi volevano solo far ritornare al mio stato originale. Che esseri meravigliosi questi umani, non saprei proprio come sdebitarmi.
L’ultima volta che mi riscaldarono mi diedero, battendomi, la forma che piano piano risultò quella definitiva. Durante questa operazione, preso dallo sconforto, iniziai a immaginare quale sarebbe stato il mio destino; cercai per consolarmi, di pensare a tutte le cose belle che potevano essere fatte con me e che a quel tempo erano tanto di moda. Forse sarei potuto diventare un elemento di una copertura in una lussuosa e moderna stazione ferroviaria, oppure un elegante ponte alla maniera di quello sul Severn o quello di Sunderland, un lampione a gas, o ancor meglio un corrimano, accarezzato dalle mani di signore con l’ombrello e afferrato da quelle burbere di un operaio sulla via del lavoro. Come tutti sanno, a quell’epoca non ero affatto un materiale nuovo: il mio uso rimonta all’età preistorica. Nei grandi edifici dell’antichità classica fui però adoperato con estrema parsimonia. Tanto i greci che i romani preferirono il bronzo per la sua maggiore resistenza alle intemperie. Neppure il rinascimento ebbe grande fiducia in me quale materiale da costruzione. Per esempio Leon Battista Alberti, l’architetto e teorico fiorentino del Quattrocento, raccomandava l’uso di materiali pronti a essere impiegati nella loro condizione naturale e non quelli preparati dalla mano e dall’abilità dell’uomo. Ancora nel periodo vittoriano io venivo considerato, da uomini come John Ruskin che odiavano l’industria, adatto solo per legamenti. I motivi principali del mio limitato impiego nel periodo antecedente alla rivoluzione industriale erano dunque la mia scarsa resistenza agli agenti atmosferici, la mancanza di modelli classici precedenti e una produzione limitata. Appena la produzione fu industrializzata assunsi un’importanza del tutto nuova e inaspettata. Per produrre un metallo su scala industriale era indispensabile un’analisi della sua struttura molecolare. La mia storia è dunque anche legata all’evoluzione della chimica, della fisica e dei metodi di ricerca sulla resistenza comparata dei materiali. Tali studi permisero una mia produzione industriale, trasformandomi in un materiale nuovo dall’utilizzo rivoluzionario.
Mano a mano che il grosso maglio mi colpiva iniziai a capire che forma avrei preso. Stavo per assumere quella di una lunga barra cilindrica; ad una estremità mi curvarono in modo da farmi fare una specie di occhiello ovale, dall’altra invece mi praticarono un filetto di una ventina di centimetri: la mia ultima trasformazione era completa.
Mi ritrovai così su di un carro, insieme ad alcuni componenti che probabilmente servivano per il mio assemblaggio, diretto nel centro storico della capitale ligure. Subito potei apprezzare un arietta piacevole e talmente tiepida che mi fece rabbrividire. L’atmosfera era stracolma di odori provenienti dalle cucine ai piani superiori delle case e che sulla via si accumulavano e si mescolavano scambievolmente, come se imprigionati dall’insormontabile altezza degli edifici costruiti a poca distanza tra di loro. A questo si aggiungeva anche il vociare della gente e delle donne, che ancora con il cestino della spesa in mano chiacchieravano alternando la spensieratezza di un pettegolezzo con un sussulto provocato dalla rimembranza improvvisa dei propri doveri di donna di casa. Il rumore della folla e della vita che caratterizza questa città e i sui odori si fondevano tra loro formando così un atmosfera che caratterizzerà, da quel momento in poi, tutta la mia esistenza.
La sensazione che provai era molto simile a quella che poco tempo prima avevo sperimentato nella vasca colma d’acqua in cui mi avevano temprato con violenza, ma in quel caso fu qualche cosa di molto particolare, in quanto, tutto avvenne senza una direzione precisa e senza capire da dove questa tensione provenisse, un po’ come succede agli umani quando danno origine a un pensiero o a un ricordo, ma non percepiscono esattamente la sua sorgente. Questa volta invece potevo distinguere tutte le caratteristiche delle forze esterne che mi tenevano in tensione, dato che queste si manifestavano in me in modo chiaro e semplice. Ero un asta sollecitata da una forza traente, un tirante in ferro: in pratica ero quello che tutti più comunemente conoscono con il nome di catena muraria ed ero stato messo in opera in modo da poter essere sempre nella condizione di tirare le murature alle quali ero infisso in modo permanente e chissà per quale bizzarro motivo.
Quella in cui mi trovavo era un’alta e sottile casa suddivisa ad un alloggio per piano, che si stagliava nella fitta giungla dei palazzi tutti uguali e tutti diversi del centro di Genova. Al terzo piano si trovava la stanza che attraversavo in senso ortogonale alla facciata e che ad una prima occhiata risultava relativamente piccola e male illuminata dal sole. Per dire la verità quaggiù il sole non fa capolino da quando centinaia di anni or sono questo quartiere non venne edificato dal nulla, ma per quanto riguarda la sua grandezza devo confessare che mi ero sbagliato in quanto, dopo un attento esame, mi resi conto che la mia percezione dello spazio era falsata dall’immensa quantità di cianfrusaglie, di mobili, di libri e papiri stipati in essa e anche se non di vaste dimensioni era comunque accettabile. Al fine di sfruttare al massimo il poco spazio offerto dagli alloggi genovesi e per garantirsi un minimo di privacy si crearono dei setti che delimitavano all’interno della struttura diverse stanze ognuna adibita ad una funzione diversa. Il soffitto dello studio in cui mi trovavo era composto da uno spicchio della volta a botte che veniva trasfigurata e offesa dal posizionamento apparentemente casuale delle tramezze che la tagliavano in punti che forse sul pavimento avevano un senso ma su di essa assolutamente no. La visuale che avevo era dunque solo limitata all’esterno e alla stanza da studio, poiché la catena gemella che proveniva dalla direzione opposta alla mia mi veniva incontro bucando il muro che separava l’ambiente in cui mi trovavo dal soggiorno, giuntandosi a me soltanto in questa stanza; proseguendo poi all’esterno dell’abitazione, grazie alla mia parte terminale riuscivo a osservare tutti i simpatici teatrini che si creavano spontaneamente in strada e negli alloggi dirimpettai.
Il luogo in cui mi trovavo era spesso frequentato dalle stesse persone: dal padrone di casa, un signore piccolino e dall’aspetto innocente che rispondeva al nome di Gustavo Efendi, dalla sua famiglia composta dalla moglie Lidia Gotier, dal loro unico figlio Ernesto ed infine da una serva anch’essa di nome Lidia,che di tanto in tanto faceva capolino nella stanza munita di piumino per la polvere e scopa di saggina. Le sue incursioni erano sempre molto veloci: per riassettare non spostava mai niente lasciando una strana traccia tondeggiante di pulito attorno agli oggetti coperti dalla polvere . Probabilmente questa non era una sua iniziativa, avevo sentito infatti più di una volta il padrone di casa dare disposizioni precise su cosa fosse permesso fare o non fare nello studio e toccare i preziosi volumi di architettura era assolutamente interdetto a tutti. Gustavo era infatti molto geloso della sua stanza e la riteneva un po’ come un luogo privato in cui poteva starsene a leggere, ad assaporare il sigaro contemplandone il fumo uscire sinuoso, a sonnecchiare sulla vecchia poltrona di pelle oramai consumata e molto spesso a lavorare. Il suo era un lavoro che svolgeva con passione, probabilmente la stessa che aveva animato suo padre prima di lui, ma a differenza di quest’ultimo, che era diventato un architetto sul campo di battaglia del cantiere edilizio, il nostro protagonista lo era diventato dopo aver scoperto l’amore per i libri e per la lettura, acquisendo perciò tutt’altra formazione rispetto al suo ormai defunto genitore.
Tutto questo, devo essere sincero, mi stupiva e allo stesso tempo mi intrigava. Io che ero materia non avevo bisogno di sapere nulla in più di quello che già sapevo, la natura aveva previsto tutto in modo perfetto e semplice. Forse era proprio il fatto di essere semplice che mi rendeva perfetto. Accidenti, non riuscivo a capire perché gli esseri umani sentissero l’esigenza di acquisire delle informazioni da dei libri che uno sconosciuto aveva scritto, e che probabilmente durante la loro breve vita non gli sarebbero servite a nulla. Presumibilmente era un po’ come il cane che si morde la coda: la curiosità spingeva gli uomini ad acquisire nuove conoscenze e, per paura che dopo la loro morte si vaporizzassero in un fumo invisibile e non trasmissibile si mettevano, a scriverle su pezzi di carta per poterle tramandare ai posteri, in modo che i loro sforzi non fossero resi vani dalla morte che prima o poi li avrebbe colpiti. A sua volte la storia ricominciava e la curiosità e la voglia di sapere continuano a far leggere i libri e di conseguenza a scriverne. Se gli uomini fossero stati immortali probabilmente non sarebbero stati così saggi. 
Come non avrei mai potuto immaginare per un oggetto così semplice, le catene possedevano una storia che risaliva a molto tempo fa, e avevano una funzione che solo recentemente gli scienziati e gli architetti più celebri erano riusciti a spiegare in modo analitico.
In antichità l’architettura raggiunse livelli eccelsi di bellezza, di organizzazione degli spazi e di robustezza. Questa era fondata sulle leggi di proporzionalità e sul modulo. I costruttori non erano a conoscenza di tutte le nozioni scientifiche che a noi sembrano elementari e scontate ma, a differenza degli architetti odierni, erano in possesso di una potentissima arma contro i fallimenti e la rovina delle fabbriche: l’esperienza. Quello che i contemporanei fanno in modo scientifico essi lo facevano basandosi su ciò che secondo loro c’era di più perfetto e simile a Dio: l’essere umano. La fratturazione di un architrave, ad esempio, era imputata alle imperfezioni della materia di cui questo era costituito e non al suo dimensionamento, che era basato su diversi criteri collaudati. Probabilmente essi facevano uso di sistemi di concatenamento, avendone intuito lo scopo e l’aiuto che questi potevano fornire alle murature, ma erano ancora lontani dal comprenderne il reale potenziale. Penso inoltre che per un architetto romano, usare il ferro per aiutare una muratura o un arco a fare il loro dovere era un po’ come ammettere di aver fallito nella progettazione o nell’esecuzione dell’opera in quanto qualche cosa era andata storta. È da ricordare che il loro sistema costruttivo, a differenza dei successivi, era basato su principi di stabilità assoluta che rendono le loro costruzioni monumenti intagliati nel tufo.
Proseguendo il nostro viaggio incontriamo i costruttori romanici, i quali si resero presto conto della impossibilità di conferire alle loro costruzioni l’identica solidità che i loro predecessori conferivano alle proprie architetture. Gli assestamenti dovuti alle notevoli altezze si trasformavano in sconnessioni e fratture. Occorreva dunque cercare dei mezzi per eliminare questi effetti indesiderati. Da questa necessità essi inventarono un sistema costruttivo nuovo fondato sul principio della elasticità in sostituzione di quello della stabilità. Anche in questo caso mi pare che si sia cercato di trovare un rimedio al problema degli sforzi di trazione nelle murature con soluzioni definitive come ad esempio l’uso di contrafforti che assorbivano le spinte generate da volte e cupole, limitando l’utilizzo del ferro in quanto per dirla come farebbe Viollet-le-Duc “questo non è che un palliativo, non è una nuova struttura”.
Ciò che fecero i naturali successori degli architetti romanici fu semplicemente di portare all’estremo la tecnica costruttiva basata sull’elasticità, sfidando ogni volta loro stessi, i loro contemporanei e la gravità in un gioco di equilibrio. I costruttori gotici, infatti, affinarono a tal punto la loro tecnica da poter riuscire a distinguere la costruzione dalla struttura. Anche in questo caso essi non si accontentarono di un ripiego come un tirante in ferro ma diedero risposta alle problematiche inventando delle nuove membrature. Solide e sottili, queste ricoprivano la curva delle pressioni sulla quale si adagiavano adattandovisi perfettamente.
I costruttori del rinascimento basarono le loro architetture su quella romana, nonostante fossero ancora allo scuro di molte leggi che la regolavano. Leon Battista Alberti rintracciò nello studio delle proporzioni degli edifici romani la base della progettazione architettonica. I dieci libri del “De re aedificatoria” si ricollegavano a un testo classico, il “De re architectura” di Vitruvio, ma costituivano la prima organica raccolta rinascimentale di tutto ciò che atteneva all’architettura. Questo trattato conteneva la prima vera spiegazione del funzionamento dell’arco a tutto sesto che fu lucidamente espressa anche se con qualche ingenuità. Egli sosteneva che questo si reggesse grazie al carico che gravava su di esso e che spingeva i conci che lo componevano ad incastrarsi e a serrarsi tra di loro, non necessitando peraltro di nessuna catena in quanto egli non vedeva il modo in cui questo equilibrio avesse potuto rompersi. Una tale affermazione conferma il fatto che i rinascimentali non avessero sviluppato alcuna teoria scientificamente dimostrabile per quanto riguarda la spinta degli archi sui suoi appoggi, limitando le proprie conoscenze ad una mescolanza di esperienza fatta dai predecessori, a colpi di successi e disastri e di intuito che in alcuni casi divenne genio. Questo dimostra perciò chiaramente che anche le catene, che come ho già detto sono strettamente correlate alla teoria della spinta degli archi, venivano intuite in modo ancora un po’ vago, anche se il loro utilizzo fu sempre puntuale e mai avventato. Viollet-le-Duc diceva che la pietra è un materiale insostituibile cui si deve giudiziosamente affiancare il ferro, non come lo avevano utilizzato gli architetti italiani del rinascimento i quali, riproponendo le soluzioni romane che a differenza delle loro erano basate sulla stabilità, si erano contentati di assorbire le spinte prodotte dalle volte mediante barre metalliche.
A partire dalla fine del XVI secolo si aprì una nuova epoca. Le cose iniziarono a cambiare e si cominciò a percepire che imputare le cause delle rotture degli architravi alla imperfezione della materia era riduttivo, ma a quei tempi necessario, poiché qualsiasi affermazione contraria avrebbe messo in discussione i principi dell’architettura classica e buttato al vento millenni di esperienza tramandata faticosamente. La proporzione architettonica basata sul corpo umano doveva continuare a vivere.
Entriamo così in una fase di consapevolezza nell’uso delle catene murarie data da una sempre più profonda conoscenza scientifica. Il meccanismo che si instaura in un arco al momento del crollo richiede, per essere descritto analiticamente, la definizione del momento di una forza. A questa ci si arrivò solo dopo la metà del XVII secolo. La prima teoria per il calcolo degli archi è infatti espressa negli anni compresi tra il 1666 e il 1699 dal De la Hire. Tutto ciò che accadde successivamente si può leggere come cronaca dei tentativi fatti ritenendo l’attrito tra i conci determinante o meno nelle questioni di equilibrio; ma questa è un'altra storia.
Come si può facilmente capire l’uso delle catene venne sempre evitato, quando possibile, tramite diversi accorgimenti e per dirla come farebbe il Cavalieri “Avvertiremo per altro che questa sorta di temperamenti non sono lodevoli in un nuovo edifizio, e che le stesse chiavi….non sono ammissibili nelle volte…., se non come ripieghi nei casi di minacciata stabilità; poiché questa in una fabbrica nuova deve unicamente dipendere dai giusti rapporti delle dimensioni e delle resistenze delle masse componenti alle spinte e alle forze di qualunque genere che agiscono sulle masse stesse, ed è sempre cosa vergognosa, per servirci d’un motto arguto dell’immortale Barozzo da Vignola, che una fabbrica abbia a reggersi colle stringhe”. Per non incorrere in questa inesattezza i greci e i romani applicarono le leggi della stabilità, durante il medioevo si misero a punto delle strutture elastiche, nel rinascimento si riconsiderò l’architettura romana adattandola alle esigenze dell’epoca ed infine si fece uso della scienza e della matematica. Anche se poco gradite le catene come me furono sempre necessarie, non solo nelle gigantesche chiese o nei palazzi, ma anche grazie alla semplice posa in opera nelle modeste case della gente comune.
Al tradizionale metodo di irrobustimento dei setti murari mediante catene lineari se ne aggiunge un altro che, alla fasciatura delle botti, assomiglia in modo molto più marcato e consiste nell’applicazione di cinture di ferro in punti strategici e maggiormente cedevoli delle mastodontiche e pesanti cupole cristiane e successivamente anche laiche. 
Tutta questa storia mi fece riflettere e capii che fino ad ora ero stato molto ingenuo. Avevo sottovalutato parecchie cose e iniziavo, solo dopo aver simulato la mia mortalità e dopo aver letto e imparato, a vedere con occhi diversi. Mi sono sentito profondamente triste in quei momenti in cui capii il significato e la bellezza del tempo che trascorre come in un orologio che procede a ritroso. Dovreste essere voi quelli gelosi ed invece…. Mi sembra di essere come un uccellino che per tutta la vita se ne è stato in gabbia senza nemmeno immaginare di saper volare, ma a differenza di questo, la cui prigione un giorno potrebbe aprirsi magari grazie ad una compiacente ragazzina, l’immortalità che mi immobilizza fa parte integrante del mio essere e dalla quale non potrò mai liberarmi. Il sapere mi inquietava, così iniziai a pensare che forse dopo tutto era meglio farla finita con questo stupido gioco, riaddormentandomi nel limbo dell’ignoranza tra i miei soliti pensieri non sarei stato più obbligato a…. Non feci nemmeno tempo a finire la frase che subito i miei grattacapi vennero trasportati velocemente e senza preavviso in una direzione opposta come spinti da una raffica di vento. Iniziai così a rimuginare attorno alle murature; resistere non era possibile, ero entrato in un mulinello di pensieri al quale non riuscivo a nuotare contro corrente. In effetti quelle di San Pietro mi colpirono parecchio in quanto si dimostrarono come veri e propri organismi indipendenti che, una volta eretti, prendevano in mano il loro destino. Il modo in cui queste reagirono alle mille diverse sollecitazioni, adattandovisi e muovendosi per assecondarle, era semplicemente stupefacente e a dispetto di tutte le preoccupazioni degli uomini, gli innumerevoli calcoli, le catenarie, i matematici, i filosofi, i papi queste erano comunque soggette soltanto alla loro volontà di rimanere in piedi. Se non fosse stato così cosa avrebbero potuto fare gli umani dal buio dei loro tavoli da disegno contro la gravità e la volontà di una massa muraria così imponente?
Come me, erano semplicemente composte da materia che prendeva, in quel caso, forma di pietra e che una volta assemblata assumeva foggia e sostanza, trasformandosi in un qualche cosa compreso tra l’organico e l’inorganico, il liquido e il solido, il mortale e l’immortale. Era incredibile ma questo era senza dubbio ciò che di materiale si avvicinava di più a qualche cosa di organico. Da questo aspetto rimasi completamente rapito e in preda al tormento di voler essere anche io una pietra e non uno stupido e insignificante tondino di ferro. Se fossi stato muratura avrei avuto una data di nascita e una di morte ed in più avrei potuto essere elogiato ed ammirato dagli uomini per la mia bellezza e imponenza. Sarebbe stato bello diventare importante e da tutti indicato come esempio di magnificenza; invece ero qui, esattamente dove starò in futuro, in una forma che mi rimane stretta e che assolutamente rifiuto.
Scoprii così un testo in italiano molto bello e curato, le cui tavole forse non erano all’ altezza di altri manuali d’architettura, ma nonostante ciò si distingueva per semplicità e sintesi di argomenti che erano stati trattati da altri testi in modo prolisso. Questa opera di Nicola Cavalieri San-Bertolo intitolata “Istituzioni di architettura statica e idraulica” recitava che i predistinti ferramenti di ritegno per loro ufficio sono destinati ad un esercizio di resistenza assoluta, che come ci spiega Galileo è la resistenza che questi oppongono quando vengono sollecitati da una forza parallela al loro asse. La mia sezione non era dunque affatto casuale, e dipendeva intimamente e matematicamente dalla sensazione di tensione interna ordinata e unidirezionale che poc’anzi ho descritto. Le chiavi debbono avere una riquadratura proporzionata alla forza traente cui debbono resistere, e tale che per una tensione costante, l’area della sezione della spranga in millimetri quadrati sia di 1/7, o al più 1/6 della tensione espressa in chilogrammi. I divisori 7 e 6 in realtà rappresentano le tensioni ammissibili espresse in chilogrammi su millimetri quadrati che potrebbero arrivare in tempi moderni a 16 per un acciaio normale e spingersi poi a valori superiori a 24 nel caso di acciai speciali.
La resistenza assoluta d’una cintura contro una forza che agisce ugualmente in tutti i suoi punti in direzione del raggio, tendendo a dilatarla e a romperla, sta invece alla resistenza d’una verga dritta di riquadratura uguale a quella delle spranghe componenti il cerchio, come la circonferenza sta al raggio. Data dunque la spinta interna al contorno, il conato che tenderà a spezzare il cerchio nelle due estremità del diametro sarà uguale alla stessa spinta diviso un numero che indica il rapporto tra la lunghezza della circonferenza e quella del diametro. La determinazione di tale numero, che ai più è noto con il nome di π, è sempre stata fonte di dibattiti e grattacapi a partire dall’antichità e ancor oggi non si è determinato in tutti i suoi decimali tanto da meritarsi l’appellativo di irrazionale. Dividendo ora la spinta interna al cerchio per due volte il nostro numero irrazionale, otterremo facilmente il valore della resistenza che la cintura dovrà opporre al fine di resistere alle forze che tentano di divincolarsi da essa. E’ questo un teorema già dimostrato dal Venturoli nel suo elementi di meccanica e idraulica, in conferma del quale si potrebbe anche addurre i risultati di varie esperienze del Poleni. 
Della mia natura tutto era stato dagli uomini predisposto e organizzato in modo preciso e meticoloso in modo che nulla potesse sfuggire al loro controllo matematico. Chiaramente la cosa più importante da tenere presente era un efficace posizionamento nella zona muraria più bisognosa di un energico aiuto. Nel mio caso, e cioè in quello in cui il setto portante è caricato verticalmente ed orizzontalmente da una volta spingente oppure in quello di una cupola, il punto più fragile e necessitante di aiuto è quello che si trova al terzo dell’altezza della saetta: zona in cui sia l’esperienza che la scienza ne individuano il punto a rottura più importante per la stabilità di un arco. In tale punto le catene, esercitando una forza orizzontale, si oppongono alla volontà muraria di ribaltarsi verso l’esterno della struttura. Se si volesse istituire l’esame della stabilità d’una volta rinforzata da una catena di ferro, si dovrebbe porre a calcolo il momento della tenacità della chiave che insieme a quello delle masse inferiori agisce contro il momento delle parti superiori, e cospira ad impedire il rovesciamento dei piedritti. Si otterrebbe così una nuova equazione di condizione per mezzo della quale, data la figura della volta e date tutte le sue dimensioni e quelle altresì del pilastro, si potrebbe determinare l’area della sezione della catena di ferro, in modo che la resistenza di questa supplisca alla scarsa grossezza del piedritto, provvedendo così opportunamente alla stabilità del sistema.
Notai poi che la sensazione di trazione delle mie fibre non era sempre costante in quanto a volte percepivo come un leggero rilassamento o viceversa una sollecitazione maggiore. Subito non ci feci caso ed imputai questo sentimento al fatto di essermi concentrato troppo nella lettura di testi probabilmente un po’ troppo difficili per la mia mente ancora poco allenata per affrontarli. Approfondendo poi il discorso capii che la natura di tale stato era di origine completamente diversa. Le verghe di ferro sono soggette infatti ad allungamenti ed accorciamenti a seconda che si alzi o si abbassi la temperatura dell’ambiente in cui giacciono. Ora la dilatazione della chiave d’una volta e così pure d’una cupola, allentando i ritegni, potrebbe generare qualche rilasciamento nelle parti allacciate; e da un altro lato lo stimolo alla contrazione aggiunto alle spinte della volta, o della cupola, potrebbe vincere la tenacità di questi ritegni, e strapparli. Quindi a ragione i costruttori coscienziosi hanno sempre temuto le variazioni prodotte dal caldo e dal freddo nei ferramenti, in quanto queste possono cagionare qualche sconnessione nelle parti allacciate, trasformando le mie buone intenzioni di sostegno a sovraccarico delle murature. Contro lo stimolo alla contrazione si può mettere al sicuro una spranga dotandola di un dimensionamento sovrabbondante poiché possa con la sua tenacità resistere al complesso delle forze traenti. Per evitare gli effetti della dilatazione ha immaginato taluno (Bullettin des sciences technologiques), che potesse valere un espediente analogo a quello già da gran tempo conosciuto nella fisica, che consisterebbe nel combinare delle spranghe di ferro con verghe di qualche altro metallo, in modo che la variazione dell’una e dell’altre, avvenendo in senso contrario, si compensassero scambievolmente. 
In tutti i testi che mi hanno permesso di conoscere meglio me stesso e le dinamiche che permettono la mia esistenza, l’unica cosa che viene ripetuta e da tutti evidenziata come importante avvertenza, è il fatto che il mio uso deve essere scongiurato se non in particolari casi di pericolo per la stabilità dell’insieme. Alzando il tono, nella parte finale del capitolo a me dedicato, il Cavalieri dice infatti che: "Quantunque abbiamo inculcato doversi generalmente sfuggire l’impiego dell’allacciature di ferro nelle costruzioni murali, le quali disdicono a quella semplicità di metodo che tanto si apprezza nelle arti e fa onore agli artefici , ed in sostanza fanno apparire il poco accorgimento dell’architetto, che si è messo nel caso di dover ricorrere a tali meschini ripieghi per non aver saputo ottenere l’intento con quei mezzi più semplici e più opportuni,che sono propri dell’arte".
Avete sentito? Mi ha chiamato meschino ripiego ribadendo ancora una volta quanto io sia il frutto di un errore o di una incompetenza. Oramai queste considerazioni non mi tangono più. Si è formata su di me una corazza repellente a qualsiasi attacco formata dalla consapevolezza e dalla sicurezza in me stesso.
Ritornando ora alle nostre vicende, il tempo è passato velocemente e in questa casa molte sono le cose a essere cambiate. Prima di tutto Gustavo morì serenamente alcuni anni or sono nel suo letto nella stanza vicina a questa. Lo studio in cui mi trovo rimase buio e poco utilizzato per un breve periodo, poi Ernesto Efendi vi fece capolino con una frequenza sempre maggiore. Per lui entrare in questa stanza e sfogliare i testi che erano di suo padre era un po’ come farlo rivivere, o comunque ricordarlo leggendo le cose che lui leggeva con tanta dedizione.
All’inizio del XX sec. l’art nouveau da Bruxelles fece capolino sulla scena europea trascinandosi appresso un materiale tutto nuovo: il cemento armato. Per questa corrente di pensiero, che si mise in forte polemica con l’accademismo e l’eclettismo ottocenteschi esaltando le fonti di ispirazione organica, questo era il materiale giusto. Divenne quasi come una firma ben leggibile impressa sugli edifici che volevano essere a passo con i tempi. Il suo compito era quello di una piuma che scrive messaggi in codice: scrittura in opposizione all’ormai vecchia e decaduta immagine.
Seppure di sviluppo e fama novecenteschi il cemento armato possiede una storia che, senza contare il periodo romano, conficca le sue radici in Inghilterra, nel 1774, quando John Smeaton ne fece largo uso durante la ricostruzione del faro di Eddystone, il quale necessitava di fondazioni che gli permettessero di contrastare la tremenda forza distruttiva dell’oceano atlantico, che più di una volta, in passato, lo avevano annientato uccidendo tutti i guardiani che lo avevano amorevolmente protetto, compreso un povero novantaquattrenne che durante un incendio involontariamente perse la vita inghiottendo del piombo fuso colato dalla sommità della lanterna. Il successo di quest’opera diede il via a numerosi esperimenti. Nel 1824 Joseph Aspdin ideò per primo un agglomerato idraulico, il cemento Portland che ancora aggi trova largo uso negli infiniti domini dell’edilizia. Cinque anni dopo, nel 1829, un certo Dr. Fox brevettò un moderno metodo di costruzione dei solai usando il nuovo materiale. Questo veniva utilizzato come riempimento disposto tra semplici travi in ferro. L’analisi scientifica delle caratteristiche del cemento armato, e un suo utilizzo efficace ed efficiente, rimasero latenti per i successivi cinquant’anni e cioè fino a quando non se ne fece un uso più intensivo.
La poesia e l’arte del costruire così finirono, trasformandosi come materia rigenerata, in scienza del costruire. L’arte iniziò a essere intesa come qualche cosa di artificiale che incorpora il proprio principio non nell’opera, ma nell’artista. Questo diventò così, sostituendosi alla natura, inventore di modelli dando libero sfogo alla sua infinita fantasia essendo finalmente libero da tutti quegli archetipi che avevano il compito di regolare e giudicare l’arte.

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